Il mercato italiano del private equity e i driver di valore

Il mercato italiano del private equity e i driver di valore

Il convegno annuale dell’AIFI (2023) dedicato al tema del private capital offre l’opportunità per fare il punto dell’evoluzione del private equity in Italia e per rimarcare la rilevanza che tale forma di finanziamento può rappresentare per la crescita delle piccole e medie imprese.

I dati presentati dalla rilevazione AIFI sul mercato italiano del private equity confermano quanto si è andato rilevando nel corso degli ultimi anni circa la progressiva apertura del capitale delle nostre imprese all’apporto di intermediari finanziari che si caratterizzano per 3 principali aspetti operativi.

Il primo riguarda la disponibilità ad offrire finanziamenti nella forma di capitale di rischio a imprese che intraprendono percorsi di crescita e di discontinuità della propria gestione che possono riguardare diverse fasi della loro vita. Da quelle di primo sviluppo dell’idea imprenditoriale e di passaggio dalla definizione del prodotto alla sua commercializzazione, a fasi più mature dove imprese già consolidate si avvalgono di nuovi fondi per le proprie strategie di crescita e internazionalizzazione. Pur con diversi gradi di rischiosità si tratta di percorsi che richiedono una disponibilità dei finanziatori a sostenere le imprese in percorsi caratterizzati da una maggiore incertezza circa il raggiungimento dei risultati attesi.

Nel 2022 gli operatori che hanno apportato capitale di rischio a imprese non quotate sono stati 202 contro i 176 dell’anno precedente. Sono prevalentemente attivi nelle operazioni di buy out (88 di cui 39 internazionali) e nel finanziamento delle prime fasi di sviluppo delle imprese (early stage). Al 31 dicembre 2022 le società nel portafoglio degli operatori attivi nel mercato italiano risultavano circa 2.000, per un controvalore di oltre 70 miliardi di Euro, di cui circa 46 miliardi investiti da soggetti internazionali. Nel solo 2022 gli investimenti sono stati pari a 13,5 miliardi (circa il doppio rispetto alla media del periodo 2018-21), di cui 11,7 miliardi per operazioni di buy out e sviluppo e il rimanente nell’ambito del venture capital. Le 796 operazioni realizzate nel 2022  hanno interessato 587 società.

Questi valori che possono sembrare contenuti se rapportati a grandezze quali il prodotto interno lordo del paese o ai finanziamenti complessivi indirizzati alle imprese (prestiti, obbligazioni e latre forme di finanziamento) assumono tuttavia una particolare valenza quando sono confrontati con quanto viene raccolto sul mercato dei capitali. Basti rilevare che gli investimenti complessivi del private equity rappresentano oltre il 10% della capitalizzazione di borsa delle società quotate (70 contro 629 mld di euro) e che tale percentuale era solo il 5% nel 2013. Inoltre, se si confronta il numero delle operazioni di private equity con quello delle società che si sono quotate si può rilevare come nel 2022 le prime superino di circa 5 volte il numero di operazioni di IPO.

Il secondo aspetto caratterizzante l’attività di private equity è che la disponibilità dei fondi è associata ad orizzonti temporali di investimento di medio lungo termine che richiedono la raccolta presso investitori portatori di capitale “paziente” quali sono gli investitori istituzionali.  Fondi pensione, casse di previdenza, assicurazioni, fondazioni sono i tipici investitori che per le loro caratteristiche operative possono adempiere ai propri impegni (passività) nei confronti degli iscritti (lavoratori e pensionati), degli assicurati e delle comunità di riferimento anche con i proventi derivanti da impieghi finanziari con scadenze di medio-lungo termine. E’ di questi ultimi anni il fenomeno di progressivo spostamento della composizione dei portafogli di tali investitori verso forme di investimento alternative quali quelle che caratterizzano il private market: fondi di venture capital e private equity, fondi e strumenti di private debt, infrastrutture. Si tratta di un importante processo di diversificazione che consente di cogliere le opportunità di rendimento a medio lungo termine  offerte da tali forme di impiego finanziario, contenendo, grazie alla minore correlazione con altre forme di investimento, la rischiosità complessiva del portafoglio finanziario.

Nell’ultimo anno i fondi pensione e le casse di previdenza hanno rappresentato la prima fonte di capitale raccolto (23% del totale), seguiti dalle assicurazioni (18%) e dalle banche (12%). Significativo è sato anche l’apporto di capitali da parte dei fondi di fondi istituzionali che sono riconducibili all’impegno con cui Cassa depositi e prestiti sostiene, attraverso i propri veicoli, lo sviluppo del private equity nelle diverse sue componenti (venture capital, growth e buyout).

Il terzo aspetto che caratterizza l’attività di private equity riguarda il il valore che i gestori dei patrimoni  conferiti (general partners) apportano alle imprese target. Infatti in questa forma di finanziamento l’intermediario non si limita a valutare l’impresa e a rendere disponibile il finanziamento ma, in virtù dell’apporto di capitale di rischio, è in grado partecipare attivamente alle decisioni aziendali fornendo supporto alle diverse aree della gestione.

I driver di creazione di valore apportati dai gestori sono riconducibili a tre principali tipologie di engineering.

Governance engineering. E’ un driver di valore che deriva in primo luogo dal possedere quote di partecipazione (di controllo o minoritarie) nelle società non quotate. Ciò consente una attività di controllo sulla gestione dell’impresa esercitata attraverso una rendicontazione frequente e dettagliata e la calendarizzazione di meeting frequenti con il management. La partecipazione agli organi di governo della società si qualifica inoltre per la possibilità di nominare rappresentanti negli organi di governo in grado di apportare competenze settoriali e gestionali.  Nell’ambito degli strumenti di governance rientra anche il replacement di alcune figure chiave del management (come ad esempio il CFO) e il sistema degli incentivi. Nel caso del venture capital questi ultimi sono contratti finanziari che accrescono le quote di partecipazione dell’imprenditore al raggiungimento di determinati obiettivi. Nelle operazioni di buyout il coinvolgimento del management è ricercato attraverso una sua partecipazione azionaria alla newco. Anche con una sottoscrizione limitata la quota riservata al management è favorita da una struttura dell’operazione dove la componente di azioni ordinarie sul totale del capitale è normalmente contenuta.

Financial engineering. Il driver finanziario è rappresentato dai cambiamenti che vengono apportati dal fondo di private equity alla struttura finanziaria della società partecipata. Questi riguardano sia il livello dell’indebitamento che la composizione delle forme di finanziamento.  La leva finanziaria è ampiamente utilizzata nelle operazioni di buy out dove una certa stabilità dei flussi di cassa può consentire di accrescere la redditività netta per gli azionisti. Ampiamente diffuso è inoltre l’utilizzo di strumenti finanziari ibridi (le azioni privilegiate convertibili, obbligazioni convertibili, prestiti mezzanini) che permettono un bilanciamento tra incentivi e controllo nel rapporto tra imprenditore e investitori.

Operational enegineering. Questo driver fa riferimento all’esperienza operativa dei gestori del fondo di Private equity utilizzata per aggiungere valore ai loro investimenti. Sono capacità più specialistiche rispetto a quelle riguardanti gli altri driver di valore e conseguentemente più importanti nel differenziare i risultati ottenuti dall’investimento.  Ciò si realizza attraverso la definizione e implementazione di piani aziendali che possono includere controllo dei costi, miglioramenti di produttività, riposizionamenti strategici, cambiamenti e upgrading del management.

La creazione di valore apportata dai fondi di private equity trova riscontro nella letteratura finanziaria che confronta la performance di tali fondi con quella realizzata dall’investimento nelle società quotate. La gran parte delle analisi empiriche conferma la capacità del private equity di ottenere un extrarendimento (alpha) che è in parte spiegato dal premio richiesto dagli investitori per la minore liquidità dell’investimento. Va peraltro precisato che la maggiore redditività è un dato medio che riflette la grande dispersione della redditività tra i diversi investimenti. E ciò a significare che esiste una diversa capacità degli operatori di private equity di apportare valore ai loro investimenti.

La notevole differenziazione di redditività degli investimenti di private equity trova riscontro nei dati rilevati da KPMG sotto riportati e relativi agli investimenti in private equity oggetto di disinvestimento o ancora in corso nel 2021

Rendimento interno annuo degli investimenti in private equity 2021

RENDIMENTO

QUOTA %

CAPITALI INVESTITI

Write-Off

4,40%

Negative

10,30%

0%-10%

7,20%

10%-20%

19,60%

20%-40%

15,90%

>40%

42,60%

   

 

Fonte: KPMG

 

Mentre il 42,6% dei capitali investiti realizza un rendimento superiore al 40% vi è una quota non secondaria di partecipazioni al capitale delle imprese che vengono azzerate o presentano rendimenti negativi.

L’impatto economico degli investimenti di private equity si misura anche guardando all’evoluzione delle imprese partecipate dopo l’uscita del fondo dall’investimento. Le analisi dell’AIFI segnalano come nei tre anni successivi il disinvestimento i ricavi delle imprese siano cresciuti in media del 10% e abbiano incrementato l’occupazione dell’11%. Inoltre le imprese partecipate mostrano una capacità brevettuale molto superiore a quella delle altre imprese e una tendenza ad accrescere la propria presenza sui mercati internazionali.

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