La struttura del capitale nelle Imprese: dalla teoria alla realtà.

La struttura del capitale nelle Imprese: dalla teoria alla realtà.

(A cura di Ottavio Caio)

Se ci soffermassimo ad analizzare la struttura finanziaria delle imprese noteremmo che l’aumento delle dimensioni porta con sé una modifica nella composizione del capitale: si assiste infatti ad una riduzione della porzione di equity, capitale proprio, a favore del debito.

La teoria del trade-off, sviluppata nel 1984 dall’economista Myers, può essere utile per illustrare e meglio comprendere la natura di questo fenomeno. Questa nasce dall’idea che ogni azienda sceglie la propria struttura finanziaria bilanciando i costi e i benefici derivanti dai diversi livelli di capitale (equity) e debito (debt) assunti. Nello specifico, contrapponendo l’analisi dei vantaggi dello scudo fiscale del debito con i costi di dissesto e i costi di agenzia, si può determinare quale sia il punto di rottura tra equity e debt, oltre al quale lo scudo fiscale del debito risulta non essere più vantaggioso rispetto ai costi insorti.  

Possiamo quindi comprendere come un finanziamento attraverso il debito sia vantaggioso per le aziende da un punto di vista fiscale, in quanto gli interessi sui “loans” non sono (parzialmente, in certi casi) tassati, ossia sono deducibili.

Come è noto, però, un alto livello di indebitamento comporta alti livelli di “rischio default”; infatti, per determinare i costi di dissesto, o bancarotta, vengono considerati due fattori chiave:

  • La probabilità che il dissesto o fallimento si verifichi: questa aumenta esponenzialmente con l’ammontare delle passività aziendali (in relazione alle sue attività), con la volatilità dei flussi di cassa dell’azienda e del valore dell’attivo: un aumento del debito determina un maggiore rischio di fallimento e, di conseguenza, un aumento dell’interesse su richiesta dei prestatori, creando così un circolo vizioso negativo.
  • L’entità dei costi dopo che l’impresa è caduta in bancarotta (tali costi variano a seconda del settore, ma si pensi che nel 2008 costarono a Lehman Brothers più di sei miliardi di dollari)

Per bassi livelli di debito, il rischio di insolvenza resta contenuto e l’effetto di un aumento del debito si concretizza in un incremento dello scudo fiscale sugli interessi; ma quando vi è un sostanziale aumento dei finanziamenti di natura debitoria, i costi aumentano riducendo il valore dell’impresa indebitata e, di conseguenza, aumentando le probabilità di fallimento (si noti che il valore totale dell’impresa indebitata è uguale a quello dell’impresa non indebitata più il valore attuale dei risparmi fiscali derivanti dall’indebitamento meno il valore attuale dei costi di dissesto o bancarotta).

Seguendo quindi questa teoria, le aziende dovrebbero aumentare il loro debito fino a raggiungere il livello ottimale. Tuttavia, nella realtà dei fatti ciò non accade, poiché le aziende tendono raramente a spingersi fino ad un tale livello di indebitamento.

Per esempio, le aziende high-tech hanno sempre una quantità di debiti molto inferiore a quella proposta da Myers e il motivo principale di tale scelta si può ritrovare nella natura stessa di questa industria. Il settore tecnologico, infatti, è caratterizzato da rischi molto elevati. L’alta volatilità dei profitti, la mancanza di collateral e soprattutto l’asimmetria informativa che caratterizza questo settore, determinano la scelta di un minor utilizzo di passività.

Inoltre, altri problemi tendono ad insorgere con l’utilizzo del debito: primo su tutti il cosiddetto “moral hazard”, ovvero una situazione in cui l’interesse dei singoli prevale su quello dell’azienda. I fenomeni del debt overhang e dell’assets subsitution sono perfetti esempi di tale “rischio morale” ed essi non sono nient’altro che le due facce della stessa medaglia. Il primo, infatti, è un caso che si crea quando le decisioni degli azionisti comportano il rifiuto di un progetto a VAN positivo (aggiunge valore all’azienda), perché esso trasferisce ricchezza dagli shareholders (soci azionisti) ai creditori. Il secondo, invece, avviene quando gli shareholders accettano progetti che distruggono valore finanziario, ossia con VAN negativo, perché trasferiscono ricchezza dai creditori agli azionisti. Possiamo notare come in entrambi i casi l’interesse primario sia quello dei singoli, rispetto a quello dell’impresa.

Risulta dunque interessante osservare come sia cruciale per un’impresa comprendere le determinanti della struttura finanziaria e sapere ponderare bene il mix di debito ed equity al fine di poter sfruttare vantaggi del debito e al tempo stesso non rifiutare/accettare progetti che creano/distruggono valore per l’impresa.