Le imprese fanno i conti con l’inflazione

Le imprese fanno i conti con l’inflazione

Dopo decenni durante i quali l’inflazione non aveva più rappresentato un pericolo per la stabilità dei principali sistemi economici, dall’inizio del 2022 la crisi energetica e delle materie prime collegata al conflitto Russia-Ucraina ha riproposto tutte le incertezze che aumenti dei prezzi a doppia cifra determinano nelle decisioni delle famiglie e delle imprese.

Nel 2022, in Italia la variazione dell’indice dei prezzi alla produzione praticati sul mercato interno è balzata al +42,8% e al +14,1% se si considerano solo i prodotti manifatturieri non alimentari. Questi aumenti si sono trasferiti sui prezzi al consumo che l’anno scorso hanno segnato una variazione dell’8,2%,  mentre per il 2023 gli istituti di previsione concordano nello stimare un +5,3%. Nell’arco degli ultimi 4 anni la perdita di potere d’acquisto per i consumatori supera il 20%.

Per le imprese l’aumento dei prezzi energetici e delle materie prime, con gli effetti indotti sui prezzi dei beni intermedi, ha richiesto una riconsiderazione delle proprie politiche di prezzo e commerciali, così come sul lato finanziario l’attenzione è andata agli effetti dell’inflazione sulla struttura finanziaria e sul costo del debito.

I dati relativi alle 2150 medie e grandi imprese del campione Mediobanca[1] aiutano a capire come queste hanno risposto alla situazione di crisi innescata dal conflitto.

Il fatturato ha segnato nel 2022 un incremento del 30,9%: per ritrovare una variazione comparabile occorre risalire al tempo della crisi petrolifera del 1980 (+32%) o a quella di iperinflazione del 1974 (+43,1%).  Il comparto energetico ha avuto un ruolo determinante nell’andamento dei ricavi dell’industria in senso stretto che, per la componente relativa alle attività manifatturiere, ha segnato una variazione del fatturato pari al 15,3 % che solo in minima parte (+1,3%) è spiegata da un aumento delle quantità vendute.

Le imprese dei settori energivori (metallurgico, prodotti per l’edilizia, chimico, cartario) hanno fatto segnare i maggiori aumenti nominali di fatturato ma hanno anche mostrato maggiore difficoltà a crescere in  quantità, a conferma di come gli altri settori industriali hanno reagito attuando politiche di risparmio energetico, comprimendo la domanda. I settori del made in Italy sono invece quelli per i quali ad un minore aumento dei prezzi (+11,6%) si è associata una maggiore crescita delle quantità vendute (3,8%). Per queste imprese il contenuto di qualità dei prodotti e la conseguente minore elasticità della domanda rispetto alla variazione dei prezzi hanno consentito di mantenere una distintività rispetto alla concorrenza e di preservare una elevata marginalità. Queste indicazioni sembrano valere per tutte le categorie dimensionali e gli assetti proprietari.

In generale si può affermare che l’insieme delle imprese manifatturiere è riuscita ad assorbire l’impatto dei maggiori costi conseguendo una significativa progressione di redditività rispetto al quinquennio che ha preceduto la crisi pandemica: il margine operativo netto (Ebit) è passato dal 5,3% del periodo 2015-19 al 6% del 2022, mentre la redditività del capitale investito (Roi) è passata dall’8,9% al 9,6%. A questo risultato hanno contribuito anche una dinamica del costo del lavoro molto contenuta (+3,5% nel 2022)  e un basso livello di ammortamenti (con una variazione del 2,4%). In prospettiva sarà dunque rilevante capire se e di che entità potrà essere il recupero dei salari e degli stipendi in considerazione della forte perdita di potere d’acquisto subita in questi ultimi due anni. La dinamica degli ammortamenti sconta invece l’effetto distorsivo dell’inflazione che, in presenza di una contabilizzazione al costo di acquisto delle immobilizzazioni, non consente un adeguamento del valore del capitale investito e della quota ammortizzata.

Una considerazione ulteriore riguarda l’evoluzione della redditività del capitale proprio (Reurn on equity) che sempre per il settore manifatturiero è passato dall’8,2% del quinquennio pre-pandemico all’11,2% del 2022. L’inflazione ha dunque giocato a favore della remunerazione degli azionisti non solo per il recupero di marginalità ma anche per l’impatto che questa ha avuto sul costo reale del debito. Quest’ultima grandezza è rappresentata dalla differenza tra il costo medio nominale dei debiti finanziari e il tasso di inflazione. Per le imprese manifatturiere il costo è stato pari al 3% (2,4% per l’industria in senso stretto) che, al netto di una variazione dei prezzi alla produzione del 14%, porta ad un costo reale del debito negativo pari al -11%.

Dunque, mentre i debiti finanziari per effetto dell’inflazione si sono svalutati in termini reali del 14% gli oneri finanziari hanno registrato una dinamica particolarmente contenuta. Ciò è il risultato di un lento adeguamento del costo nominale del debito alla variazione dei tassi d’interesse intervenuta nel periodo.

Nel 2022 si è pertanto avuta una forte redistribuzione di ricchezza finanziaria dagli investitori/finanziatori a favore delle imprese e dei suoi azionisti. In prospettiva, via via che verranno rinnovati i finanziamenti, il costo del debito si adeguerà al più alto livello dei tassi di interesse di mercato con un impatto negativo sulla redditività netta delle imprese. Questo effetto sarà comunque differenziato in relazione al diverso grado di indebitamento delle imprese.

Ad attenuare i timori di uno shock finanziario via tassi di interesse, vi è la considerazione che ad oggi la struttura finanziaria dell’insieme delle imprese si presenta molto più solida di alcuni anni fa e soprattutto esiste un’ampia liquidità nel loro attivo. Per le imprese manifatturiere il rapporto debiti/capitale proprio è sceso dal 52,9% del quinquennio 2015-19 al 46,2% del 2022, mentre le disponibilità liquide rappresentano oltre il 33% del totale dei debiti finanziari (rispetto al 30,1% del quinquennio pre-pandemico).

Sono questi dati di struttura finanziaria che fanno capire come oggi vi siano le condizioni per le imprese più capitalizzate e con la maggiore liquidità per intraprendere percorsi di crescita esterna sia sul mercato domestico che internazionale. L’inflazione è infatti anche un fenomeno che accentua la distanza tra imprese capaci di gestire le opportunità offerte da una revisione delle proprie strategie commerciali e finanziarie e quelle imprese che sono destinate a subire i contraccolpi degli aumenti dei prezzi sul lato dei costi e della domanda. E’ così prevedibile che nei prossimi anni si possa assistere ad una intensa riorganizzazione e ad un ulteriore rafforzamento della struttura del nostro sistema produttivo.

[1] Mediobanca, Dati cumulativi di 2150 società italiane, 2023. Con riferimento alle ultime rilevazioni dell’Istat sulle imprese con almeno 20 addetti, le 2150 società coprono il 48% del fatturato dell’industria (51% di quella in senso stretto e 49% manifatturiero), il 38% di quello dei trasporti e il 46% di quello della distribuzione al dettaglio (alimentare e non).

 

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